La “buona reciprocità” a fondamento della valenza educativa del docente

Per pensare

Per poter affrontare la riflessione sulle relazioni di “buona reciprocità” nell’esperienza scolastica e di educazione, mi pare necessario evidenziare, prima di tutto, come nella società attuale si tenda a svalutare il ruolo educativo che è fondamentale per un docente. È facile constatare come la valenza educativa degli insegnanti abbia subìto, nella società attuale, un crollo vertiginoso per cui è difficile parlare di relazioni educative vissute in ambiente scolastico, senza fermarsi a riflettere sull’urgenza di ripensare il ruolo educativo degli insegnanti. Se la scuola mira unicamente a formare le giovani generazioni per entrare nel mondo del lavoro, si comprende come l’impostazione dell’intero sistema scolastico sia costruito attorno ad una concezione economica.

Una tale finalità assolutizzata, offusca i tratti costitutivi della scuola e della sua caratteristica distintiva che è l’educazione. Quando si parla di tratti costitutivi della scuola non ci si riferisce, infatti, unicamente al rapporto tra giovani e lavoro ma, soprattutto emerge «il riconoscimento del valore delle persone e della novità che ciascuno incarna, la stima per l’esercizio del pensiero critico e della conoscenza come ricerca e scoperta del mondo e di sé, la cura per la dimensione comunitaria dell’esistenza umana e della stessa società, quella per le dinamiche non distruttive e di tendenziale reciprocità con il mondo naturale e con le molteplici forme di alterità (ad es. gli stranieri, le altre culture)» secondo il filosofo Roberto Mancini.

Ecco dunque l’identità ultima dell’educazione, questi i tratti costitutivi che la connotano correttamente, spazzando via le concezioni ingannatrici e deformanti. In quest’ottica la scuola acquista un valore umano e sociale, diviene non solamente un’istituzione finalizzata alla trasmissione del sapere ma, soprattutto, un nucleo essenziale di rigenerazione culturale e umano dell’intera società, diviene l’organismo preposto per la cura della nascita del nuovo, tipico delle nuove generazioni. La scuola con questa concezione diviene connotato di continuo rinnovamento e rinascita, tratti peculiari della “buona reciprocità” che investono sia le relazioni tra educatore e giovani generazioni, sia l’equilibrio tra cultura già tradizionalmente acquisita e rinnovamento della stessa. 

Se confrontiamo la scuola attuale con quanto ho esposto fin qui, appare chiaramente quanto sia urgente attuare dei percorsi risanatori che incidano positivamente sulla crisi persistente che attanaglia l’istituzione scolastica. Tra le tante cause di questa crisi, due sono, a mio avviso, quelle che hanno inciso nel tempo. La prima è la mancata riflessione sulla finalità e sui compiti della scuola. La conseguenza è stata la riduzione dell’istituzione scolastica alla stregua di una qualsiasi azienda fornitrice di servizi. Questo comporta l’assunzione dello stile economico che finalizza il tutto, anche il sapere e le persone, ad una pura funzionalità.
L’altra causa, non meno importante è quella a cui ho già accennato all’inizio di questo paragrafo, quella della penalizzazione degli insegnanti, soprattutto «il misconoscimento del valore e della figura del loro essere persone e educatori». Se anche gli insegnanti, in una scuola aziendalizzata, sono ridotti ad una mera funzione, diverranno sterili addestratori che fanno riferimento a pratiche e percorsi prestabiliti, perdendo la loro dignità, la loro libertà, la creatività, il coinvolgimento nella relazione educativa perdendo, in definitiva, la loro caratteristica principale che è quella di essere educatori. 

È giunto allora il momento di proporre possibili soluzioni per attuare percorsi entro i quali la scuola potrebbe riappropriarsi della propria essenza educativa. Ne propongo due: innanzitutto liberare il docente dalla funzione di sterile addestratore e fare in modo che egli si riappropri del suo essere persona e del suo compito imprescindibile di educatore; la seconda condizione vede la scuola tornare a quella che è la sua essenza da sempre, un organismo pubblico, interculturale, di natura educativa che, proprio per questo, un’istituzione in grado di pensare metodi e competenze professionali.

Perché questo avvenga è necessario e urgente ridare senso e significato alla parola educazione. Essa è il mezzo per «imparare a vivere e a convivere nella libertà e in quella giustizia che non è altro se non il nome plurale della libertà stessa», afferma il filosofo Roberto Mancini. Dunque, a ben vedere, educare non è affatto stabilire delle regole che poi devono essere seguite da chi sta crescendo. La definizione più conosciuta di educazione è quella etimologica che vede la radice del significato nel termine latino “ex ducere”, tirar fuori. L’educazione secondo questa accezione significherebbe far venir fuori le potenzialità di ogni persona. Ma questa non è che una parte del significato di educazione. In effetti a ben vedere «tante altre cose noi non le abbiamo dentro, ma sono sollecitazioni che vengono dalla natura, dalla cultura, dalle persone che incontriamo, da quelle che si possono chiamare le forze educative del mondo». L’educazione allora non è soltanto un processo che abilita il ragazzo a tirar fuori le potenzialità che ha dentro di sé ma fa in modo che chi cresce, il ragazzo, possa arrivare preparato all’incontro con il mondo che lo circonda e l’educatore ne è il mediatore e fa in modo che l’incontro con il mondo, con le persone, divenga esperienza che trasforma chi sta crescendo.

Gli insegnanti perché possano divenire educatori credibili, dunque, dovrebbero essere accompagnati a riscoprire un modo di vivere più umanizzante, che dia loro la possibilità di aver cura di sé, della propria esistenza. Perché questo sia possibile, urge una riflessione su tre termini: consistenza, continuità e prossimità estrema.
Un educatore, è ascoltato dai giovani quando è consistente, quando è appassionato, non rassegnato, responsabile senza essere pesante. Se un giovane incontra un educatore di questo tipo, egli è capace di fidarsi trovando nell’adulto, nell’educatore, un punto di riferimento che lo accompagni a diventare sé stesso.
Un docente diviene educatore rendendosi gradualmente capace di dare continuità alle relazioni, alle persone, un insegnante che sappia condividere diviene anche credibile, affidabile, perché capace di testimoniare che è possibile perseguire la felicità seguendo questo stile di vita. Per quanto riguarda la prossimità estrema, invece, non si tratta solo di avere la capacità, da parte dell’educatore, di essere prossimo alla vita del giovane, di essere presenza positiva nella sua esistenza. Si tratta di essere ancora più vicino quando il giovane è immerso in una qualche forma di errore, in situazioni in cui la presenza dell’educatore diviene cruciale per la vita di chi sta crescendo. L’educatore, il docente, che cura la prossimità estrema va a cercare il giovane anche nelle situazioni in cui tutto sembra perduto tentando un eventuale recupero. Egli, mette in gioco tutto sé stesso, dunque, in una forma di relazione in cui il dialogo diviene una forma di reciproco apprendimento, in cui ogni età porta un contributo insostituibile.
Un dialogo che ha in sé il valore della libertà, della condivisione, della creatività. In questo gli adulti educatori giocano un ruolo fondamentale valorizzando quella libertà insita in ogni persona umana che implica anche la possibilità di poter sbagliare, una libertà del genere non è semplice permissivismo ma è sorretta dalla cura della relazione con il giovane. In questo orizzonte, allora, ogni risposta pratica, frettolosa e riduttiva va eliminata per lasciar spazio a questa libertà che pone le basi per una trasformazione che parta dall’interno del giovane, attraverso il percorso rigenerante della “buona reciprocità”.
Si può allora affermare che educare è stabilire «una reciprocità positiva per cui si giunge ad assumere la dignità di ognuno come una promessa del cui inveramento, come adulti, siamo responsabili». Avviene, solo a questo punto, il superamento della concezione etimologica del termine educare. Essa implica anche da parte dell’educatore, il facilitare ai giovani l’incontro con il mondo che lo circonda riuscendo a scorgere in esso le sue forze educative. Ogni adulto educatore è chiamato ad aver cura affinché questo possa avvenire, proponendosi come credibile fonte di fiducia. Una relazione che si estende, oltre alle altre persone, anche agli eventi.
È fondamentale, in ultimo, evidenziare la portata civile e sociale dell’educare all’incontro. Per l’Autore, infatti, imparare ad incontrare implica, inevitabilmente, l’abbandono delle logiche dell’esclusione e della sopraffazione. In ciò i giovani hanno una eccezionale forza maieutica per la società «perché nel rinnovarla e nel proiettarla nuovamente verso il futuro le permettono di non isterilirsi nel già dato e di trovare soluzioni a problemi che sembravano irrisolvibili, primo tra tutti quello di pervenire ad una forma di convivenza libera dal dominio e dalla violenza».
Termino con una convinzione personale: solo quando le nuove generazioni assumeranno in pieno le loro responsabilità sociali e politiche divenendo finalmente protagonisti dell’oggi, la società potrà rinnovarsi dal suo interno grazie ad un rapporto dialogico basato sulla “buona reciprocità” non solo con gli adulti ma con la società, con il mondo intero.

 di Maria Grazia Rizzo

MANCINI Roberto, La buona reciprocità. Famiglia, educazione, scuola, Assisi, Ed. Cittadella 2008.
MANCINI Roberto, L’educazione in esilio, in Rivista di Teologia morale (2009) n. 162, 161-169.

 

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